Ricordo la campagna vaccinale del 1970, quando arrivò in casa la notizia che il cuginetto Sandro s’era preso il morbillo. Fu immediatamente organizzata la trasferta e tutti i bambini ancora immuni deportati a casa sua con l’obbligo di giocarci insieme tutto il pomeriggio; lui, con la febbre, non aveva neanche tanta voglia, ma il suo compito era sacrificarsi per il bene comune, mentre il nostro era respirare a pieni polmoni quell’aria ammorbata, nel salotto dove, pur essendo piena primavera, la zia teneva le finestre chiuse per tagliare al virus ogni via di fuga. La spedizione conseguì l’effetto cercato e il ricordo successivo è la tristissima mattina in cui tentai di andare comunque a scuola e, di soppiatto, in grembiule e con la cartella, scesi dal terzo al piano terra, per essere infine sorpresa e arrestata sulla porta, perché la malattia era contagiosa e si poteva diffonderla solo in spazi dedicati, come il salotto degli zii, mentre da scuola, se l’avessero scoperto, sarei stata perfino allontanata e anzi lo sarei stata di sicuro, vista la maschera che ormai portavo in volto.
Il medico di base, intervenuto a confermare la diagnosi, disse per antica sapienza che lo sfogo sarebbe stato agevolato se avessi bevuto del vino, naturalmente rosso, e perciò me ne fu integrata la dieta per una settimana - per quanto, vivendo nel Veneto, otto anni non fosse ritenuta un’età esageratamente precoce per cominciare a bere.
Gli adulti di casa credevano che, più tardi si prendeva la malattia, peggio era e, tra l’eventualità che i figli non si ammalassero mai e quella che gli accadesse da adulti, deliberatamente sceglievano di esporli direttamente al contagio.
Era una logica di tipo vaccinale, in anni in cui il vaccino non c’era. Era una pratica brutale e rischiosa, consentita perché agiva in ambito privato, ben diversa dai provvedimenti assunti dell’igiene pubblica, da sempre improntati, al contrario, all’isolamento del malato per limitare la diffusione.
Chissà se i genitori della senatrice Taverna, pure lei mandata in processione dal cugino per “togliersi dalle palle” il problema, secondo la sua elegante formulazione, l’avrebbero fatto lo stesso, se avessero avuto un modo meno selvaggio e, soprattutto, meno pericoloso di ottenere il risultato.
Chissà se i genitori della mamma informata, che ha istruito il professor Burioni sull’immunità acquisita giocando per terra, la lasciavano sguazzare nelle pozzanghere o erano pochissimo informati come la mia, che pretendeva che al rientro a casa ci lavassimo le mani, superstiziosamente convinta che il suolo fosse popolato di entità che chiamava “germi”, che occorreva togliersi di dosso perché portavano malattie. Fortunati i bambini di oggi, a avere i genitori così istruiti.
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