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Friday for Strike

Ogni anno, fra l’autunno e l’inverno, nelle scuole superiori italiane si adempie al rito collettivo della grande assenza, nella forma di manifestazione organizzata sotto una bandiera di protesta per qualcosa che non funziona. Sotto la bandiera stanno anche tutti quelli che alla manifestazione non si vedrebbero mai, perché non ci sono andati proprio, ma la massa è un oggetto che si stima a spanne e di cui non si fa l’appello. 

Per molti anni, da insegnante, ho cercato di riflettere con gli studenti su questa curiosa pratica, per cui uno o più giorni l’anno- mai però di sabato pomeriggio o domenica, mai in vicinanza degli scrutini, quando a scuola ci sono le interrogazioni importanti - è preferibile non andare a scuola, ma figurare almeno di stare in un grande movimento che percorre piazze e strade sotto gli sguardi della polizia e quelli curiosi e forse intimoriti dei passanti. Affrontavamo domande semplici: i motivi della protesta sono noti? fondati? è questa un’azione che serve a qualcosa? come pensate di mantenere l’impegno che manifesterete in questa occasione? Ogni anno era la stessa storia, chi aveva qualche idea aveva generalmente comprato tutto il kit e snocciolava formule come avemarie del rosario. Per il resto, il nulla sul cosa e il perché, un po’ meno sul “come”, visto che consentiva libertà di movimento, astensione gratuita dalla frequenza scolastica, niente compiti al pomeriggio, il tutto nobilmente ammantato dal diritto di far valere le proprie opinioni da parte di chi avrebbe pigliato di qui a poco le redini del futuro. 

Colleghi disincantati mi guardavano con tenerezza: avevano già capito che dare tanta importanza a questi dettagli era inutile. Il rito collettivo contava più del suo contenuto, anzi, il suo contenuto era proprio l’astensione dalla frequenza obbligatoria, giustificata con l’esistenza di qualcosa che non andava, da portare all’attenzione di una platea indefinita con un’azione che la rendesse evidente, come essere in tanti nelle piazze e mandati in onda in televisione. 

A altri colleghi, romanticamente pareva di ritrovare nelle aspirazioni confuse dei loro alunni i sogni infranti di un tempo; sostenevano un gesto che vedevano liberatorio, antiautoritario, che pareva promettere che nulla era veramente perduto; che fosse manifestamente troppo tenue, senza radici, diciamo pure librato nel vuoto, non importava. Anche a loro non meritava spiegare: di quella scelta amavano l’emozione nostalgica che suscitava il ritrovare, per un poco, le note dolci della giovinezza.

Quest’anno, l’argomento per consumare il rito è un appello, come si dice oggi, “non divisivo”: no sinistra no destra, tutti uniti per la buona causa della salvezza del pianeta. 
Alla nobile scampagnata ha dato imbarazzante sostegno lo scivolone istituzionale del neoMinistro dell’Istruzione che, presumibilmente poco informato della circostanza che il servizio pubblico ha sia una missione sia un costo, ha ritenuto di far uscire - peraltro, non a sua firma - una nota in italiano tortuoso di appoggio a coloro che, domani 27 settembre, butteranno alle ortiche migliaia di ore di lezione e il senso della scuola tutta, che frequentare non serve perché chi meglio della grande folla appassionata può contribuire a risolvere un problema?

È l’università della strada che avanza e progressivamente scende ai gradi inferiori della d-istruzione. 


Commenti

  1. Condivido le tue riflessioni. Anch'io sono rimasta basita per "la liberazione" del Ministro della pubblica istruzione. Ciao e buon anno scolastico.

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  2. Il motivo della protesta è proprio quello di creare disagio alle autorità pubbliche in modo che facciano pressione alle grandi multinazionali che fanno solo i loro interessi invece che pensare anche al pianeta. Non mi pare che il suo discorso fili proprio correttamente. Inoltre lei parla di migliaia di ore di insegnamento senza studenti ignorando però che l'intento è proprio quello di far capire che l'insegnamento è inutile se un futuro non ci sarà.

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