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Giustificazione per fede

Ci fu un tempo in cui era il preside a giustificare le assenze. La frequenza scolastica era obbligatoria; in caso di assenza dell’alunno, il padre doveva dichiarare al preside il motivo, che, se giudicato irrilevante o inattendibile, lasciava l’assenza ingiustificata e l’alunno diventava passibile di sanzione disciplinare.

Così recitava il Regio Decreto del 1925, ma da allora molte cose sono cambiate, a partire dall’esautoramento di fatto, se non di diritto, del preside dalla responsabilità di giustificare l’assenza dello studente.

È oggi infatti convinzione diffusa che “dichiarazione del genitore” e “giustificazione dell’assenza” siano la stessa cosa, ossia che sia il genitore a decidere se il figlio sia stato validamente assente. Vige il costume di dichiarare l’assenza per “motivi familiari”: ragione opacissima, che il preside del 1925 non avrebbe mai accolto senza chiedere ulteriori elementi di giudizio, che però faticherebbe a ottenere da genitori sempre più inclini a considerare fatti propri quelli che tali esattamente non sono, essendo, quello scolastico e formativo, un “obbligo” che essi stessi son tenuti a adempiere.

Questo trasferimento di responsabilità ha la sua ragion d’essere, perché già nel 1925 attendibilità e rilevanza venivano stabilite sulla base della mera dichiarazione del genitore, l’accertamento della cui eventuale fallacia non era in capo a nessuno. Insomma, poteva esser bugia, ma bastava che paresse verità e il ragazzo veniva senz’altro riammesso a scuola. 

Maggiormente di questi tempi, se papà e mamma autorizzano la fuga da un compito con una falsa dichiarazione di “febbre e mal di gola”, potrà mai permettersi il preside di mettere in dubbio la loro parola? A esser severo in presenza di dichiarazioni improbabili o generiche, null’altro otterrà che la proliferazione di dichiarazioni adeguate, nonché  menzognere.
Poi, appena maggiorenne, il giovane le giustificazioni se le firma da solo, i motivi da “familiari” diventano “personali” e vai un po’ tu a mettere in dubbio il suo diritto di decidere dove trascorrere la mattinata.

E, se mai si volesse fare una campagna-verità, ci si imbatterà in un numero troppo elevato di dichiarazioni inattendibili e irrilevanti una più dell’altra, sveglie che non suonano parenti che muoiono autobus che non passano voglia di venire a scuola che non c’è, di fronte alle quali si scoprirà che il problema vero è quello di ragazzi che l’obbligo della frequenza non lo sentono proprio e di famiglie che non se danno pena. 

Quando hai la prova provata che il ragazzo ha bigiato perché l’insegnante lo ha visto al bar, telefoni alla mamma e ti pigli parole perché l’hai svegliata dopo un turno di notte, Certo che lo so che mio figlio è fuori scuola ma la professoressa l’ha già interrogato e adesso sta facendo il giro e chiama tutti gli altri capisci che il Regio Decreto è roba dell’altro secolo.
Quando sai che lo studente sta facendo lo slalom per evitare tutte le occasioni di imbattersi in un compito o un’interrogazione che potrebbe rovinargli la media, ma ti sciorina malesseri mal di pancia mal di testa ho accompagnato a scuola la sorellina e non puoi fare nulla, perché è chiaro che mente ma non hai le prove, capisci che la giustificazione è, definitivamente, solo un pezzo di carta.

Poi ti arriva il Ministro Green che auspica che la scuola giustifichi l’assenza per la partecipazione alla manifestazione per il clima e si preoccupano i professori, gli studenti, telefonano i genitori, i giornalisti… Un’agitazione collettiva: “Sarà giustificata questa assenza? Sarà tolta dal computo del monte ore? Qualcuno potrebbe rischiare di perdere l'anno?”. Per un attimo, hai la sensazione di un tuffo nel passato, nel 1925.  

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