Il mio papà e la mia mamma furono mandati a scuola: all’età di sei anni appena compiuti la mamma e di sette e mezzo il papà (che un anno prima aveva cominciato regolarmente, ma subito interrotto la frequenza - c’era la guerra e non ancora la DaD) partirono dalle loro abitazioni e camminarono, cartella in spalla, fino all’edificio che già aveva accolto la generazione dei loro genitori, se non dei loro nonni.
Quando fu il mio momento, la mamma mi accompagnò: mi prese per mano e io andai con lei fino al portone di una scuola nuova di zecca e già troppo piccola per accogliere tutti i bambini del boom. Mi provocava grande meraviglia che il compagnetto Maurizio piangesse a dirotto, al punto che alla mamma fu concesso, per qualche giorno, di entrare in aula con lui - a consolargli la rassegnazione che tanto là, e da solo, doveva stare, non c’eran santi.
Stamane, una mamma ha chiesto che il figlio, quattordicenne, possa visitare la scuola che frequenterà il prossimo anno. Le ho detto di no, non c’è personale per accompagnare, ci si vede a settembre. Poverini, entrano in una scuola dove non sono mai stati… L’ho talmente capita che mi sono sentita in dovere di rassicurarla che a settembre saranno organizzate le attività di accoglienza.
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