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18 febbraio, tutti in piazza!

Pare che, domani, l’Italia sarà fiorita di manifestazioni studentesche (è, come d’uso in queste occasioni, venerdì e moltissime scuole il giorno dopo non hanno lezioni in calendario) - e pure da qualche sciopero di lavoratori indetto all’ultim’ora, che se la causa è giusta bisogna esserci per forza. 

Nel passato, ho dedicato molto tempo a far riflettere gli studenti sulle motivazioni che, anno dopo anno, regolarmente li chiamavano a raccolta per grandi manifestazioni, autogestioni, occupazioni. 

Mi sembrava doveroso insistere a ragionare con loro che un’azione ha un perché e chi la compie, se agisce in modo socialmente responsabile, di quel perché deve farsi carico, deve, quantomeno, conoscerlo.


Ciascun buon organizzatore sa invece che il successo di una manifestazione si misura dal numero dei partecipanti, mossi da un interesse che per lui poco conta che sia parassita (se domani non devo andare a scuola oggi ho il pomeriggio libero) o addirittura autolesionista (la perdita di ore di scuola è un danno per l’economia e la crescita culturale del Paese). Conta poco ma ci conta, perché gli studenti non vengono mai chiamati a manifestare di domenica. 


I miei colleghi, che si limitavano a scrivere nel registro: “Tutta la classe assente per manifestazione” senza affrontare mai l’argomento con i loro studenti, mi sembravano insopportabilmente poco attenti all’importanza di essere consapevoli di quel che si fa, tanto più se quel che si fa è protestare. 


Ma anche io, invecchiando, ho imparato a vedere la cosa da un altro punto di vista. Esistono i grandi problemi dell’epoca e esistono i giovani, che sentono il vigore fisico e l’orizzonte ampio - esaltante, nella sua indeterminazione. Confusi nel gruppo, inneggiare tutti insieme sotto una bandiera che pensiamo solo nostra e convintamente giusta è più importante che accertarsi che sulla bandiera non stia un errore logico o storico grande come una casa, oppure semplicemente una stupidaggine inutile. 

Errori e stupidaggini che costerebbe comunque troppo studio rilevare, perché nessun grande problema si lascia liquidare con uno slogan - e forse i vent’anni di oggi sono in genere un tempo troppo breve per affrontare qualsiasi problema con precisione di dettagli e sfumature. 


Sulle insegne di domani vedremo, dunque, la strumentalizzazione spudorata di due tragedie (i due giovani morti in periodo di tirocinio lavorativo, il secondo per incidente stradale del mezzo su cui viaggiava), con la volontà di eliminare una conquista faticosissima della scuola italiana, l’aggancio con il mondo del lavoro - quello in cui i ragazzi trascorreranno, volenti o no, tutta la vita di poi, quel mondo in cui dovranno trovare i mezzi per rendersi indipendenti dai genitori e magari formare una famiglia, e che ora hanno la possibilità di cominciare a conoscere, nelle sue luci e ombre; ma no, meglio rimandare e tornare alla scuola che tutta vive di vita propria. 


Sulle insegne di domani starà il ben più urgente interesse a non sostenere la seconda prova al prossimo esame di stato: due anni di pandemia hanno reso gli studenti fragili e incapaci di tanta impresa, nonostante la seconda prova sia prevista uguale identica a quelle che proprio adesso, tutti i giorni, si stanno somministrando a scuola, inventate e corrette dagli stessi insegnanti. Da chi pretende di essere riconosciuto incapace di fare un compito di classe, c’è ben poca speranza che venga mantenuta la promessa di “ripensare una nuova idea di istruzione” ma, appunto, son questioni di dettaglio.


Infatti, domani, insieme ai giovani, vedremo più di qualche anziano, in cui prevale la nostalgia dell’età perduta: sì, certe conclusioni sono un po’ affrettate, certe prese di posizione discutibili, si sente che non hanno studiato, ma sono giovani, e beati loro.

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