Da bambina leggevo moltissimo e, a differenza di quanto accade ora, quello che leggevo lo ricordavo pure.
Ricordo dunque che in quinta elementare avevo trovato a casa un libro di lettura di una generazione avanti, in cui si raccontava una scena al mercato: un ragazzetto che aveva abbandonato la scuola rivedeva, dopo parecchio tempo, il suo insegnante, andato per la spesa al banco dove lui serviva da garzone. Caloroso incontro, al termine del quale il ragazzetto tratteneva il maestro, per porgli una domanda in cui, nonostante la scuola appartenesse ormai al suo passato, egli si arrovellava: “I verbi transitivi sono quelli che passano o che non passano?”.
Ricordo l’insoddisfazione che mi lasciò quella lettura. Passano? Passano dove? Perché mai i verbi avrebbero da passare o no da qualche parte?
Una volta alle medie, fu chiarito che non era l’italiano a voler dare gambe ai verbi: l’italiano passare traduceva semplicemente il latino transire, da cui in/transitivo: il problema era dunque più grave, perché antico. Allora ci spiegarono che il verbo è transitivo quando l’azione passa dal soggetto al complemento oggetto e ciò determinò, per la maggior parte di noi, l’acquisizione definitiva che non era faccenda da meritare un’attenzione seria. Come mio nonno, che aveva fatto la terza elementare, quando compilava le parole crociate, trovando la defizione “andare”, scriveva “ire” (facendo cosa giusta, per quanto credo non abbia mai saputo il perché) noi si svolgevano esercizi senza il senso della cosa - senza senso, in breve.
Io ero un’alunna diligente, prendevo ottimi voti, tuttavia non capivo niente. Non riuscivo a dare nessun contenuto reale alla descrizione azione che passa dal soggetto al complemento oggetto: ogni volta che ci provavo, la concretezza del movimento mi si imponeva e mi venivano in mente verbi come, appunto, passare e poi andare, correre, salire: tutte azioni in cui c’è qualcuno o qualcosa che effettivamente passa, magari l’acqua del fiume o un’idea per la testa. Ma questi verbi sono invece maledettamente intransitivi, mentre sono transitivi mangiare e bere, che anche qui qualcosa passa dalla bocca allo stomaco e all’intestino. La transitività del verbo, insomma, sembrava non avere niente a che fare con la vita reale - o, se legame c’era, nessuno riusciva a metterlo in chiaro.
Gli esercizi venivan giusti, credo, perché, anche se nessuno ce lo aveva detto, chi aveva un po’ di intuito controllava se, dopo il verbo, ci fosse subito un nome o qualcos’altro di mezzo tipo in, per, con e in genere ci azzeccava - gli altri copiavano. La pratica prevaleva sulla grammatica e bastava allo scopo, perché i predicativi e i transitivi assoluti - la parte davvero insidiosa - erano tutti raccolti in un solo esercizio del compito e, anche fallendoli al 100%, se ne veniva fuori, ignoranti come prima, ma con la sufficienza.
Commenti
Posta un commento