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"Do you speak English?" "Why?"

Che sapere le lingue sia una grandissima virtù è noto: giova alla plasticità del cervello, avvicina le culture e via dicendo. 

A scuola permette, per esempio, agli insegnanti in gita all’estero con le classi di non dipendere da quanto inglese sanno i loro studenti per chiamare un’ambulanza o segnalare un furto alla polizia o anche semplicemente per parlare con l’albergatore.

Servirebbe anche per fare finalmente il CLIL (l’insegnamento di una disciplina in lingua inglese), previsto fin dalla riforma del 2010 e mai attuato in termini statisticamente significativi, perché l’età media del docente italiano non è facilmente compatibile con il livello di conoscenza minimo richiesto, che è il C1 del Quadro Comune Europeo di Riferimento per le lingue. 


Opportunamente, dunque, è stato previsto che una parte della prova orale nei concorsi a cattedre - che si vanno concludendo in questi mesi e immetteranno in ruolo moltissimi nuovi docenti, il che dovrebbe essere una buona notizia - fosse dedicata proprio all’accertamento della conoscenza della lingua inglese con riferimento almeno al livello B2 del Quadro Comune Europeo. 


Quello che effettivamente è successo è che rarissimi candidati son stati capaci di buone prestazioni, i più si sono arrangiati a fatica, talvolta le commissioni hanno dovuto soprassedere, con il consenso degli interessati. In genere, più i candidati son vecchi, meno inglese sanno; in breve, all’atteso livello B2 del Quadro Comune Europeo non c’era quasi nessuno. 


I candidati promossi sono stati poi collocati in una graduatoria, come sarebbe una scala in cui uno monta sopra l’altro grazie al punteggio delle prove di concorso e anche di altri titoli che può vantare, tipo seconde lauree, dottorati e appunto, per quel che ci interessa, certificazioni linguistiche.


Siccome noi vogliamo che nella scuola italiana vadano a insegnare soltanto i migliori, chi scrisse il bando di concorso pensò che, se il colloquio testava la conoscenza linguistica al livello B2, chi se la cavava anche meglio doveva essere premiato - meritando di salire di qualche piolo sulla scala. Ecco che chi conosce l'inglese al livello C1 (quello del CLIL) vale quanto chi ha conseguito una seconda laurea, e cioè 3,75 punti. E chi lo conosca al livello C2 - la competenza di chi “è in grado di comprendere senza sforzo praticamente tutto ciò che ascolta o legge... Si esprime spontaneamente, in modo molto scorrevole e preciso e rende distintamente sottili sfumature di significato anche in situazioni piuttosto complesse” - deve avere ragionevolmente di più: 5 punti. Per dare un’idea: un intero anno di insegnamento, di punti ne vale solo 1,25. 


Ma ecco, la sorpresa. 


Al momento di sommare i titoli al risultato della prova, le commissioni scoprono che non pochi ormai ex candidati e futuri docenti, i quali balbettarono appena o tenacemente tacquero di fronte a domande banali, la cui parte in lingua straniera del colloquio insomma passò del tutto senza lode, anzi perfino con qualche infamia, presentano certificazioni C1 o C2 come se piovesse e sgomitano per arrampicarsi sulla scala, calcando pesantemente il piede sulla testa di quello che sta sotto.


Deve trattarsi di un preoccupante, orribile caso di crollo cognitivo in una popolazione relativamente giovane. 

Come può infatti essere che chi, solo sei mesi fa, in quel di San Giovanni Vesuviano, fu sentito parlare come un madrelingua, oggi, alla domanda: “Where are you teaching now?” reagisca dapprima con un prudentissimo: “Allora…” per poi ritirarsi in un riservatissimo, meditativo silenzio?

Come può essere che il candidato, che nomina spontaneamente alla commissione la “digital literacy”, non sia in grado di spiegare cosa significa in italiano?

Come può essere che alla domanda: “Dove ha conseguito la certificazione?” qualcuno risponda: “Ora non glielo saprei dire”? Quale sito di incontri ha timore di nominare?


Per essere onesti e dar conto di tutte le possibilità, in qualche commissione si è sussurrata l’ipotesi alternativa che tali “certificazioni” erano talmente fuori portata di chi le presentava che forse erano state acquisite in maniera (s)bieca.


Questa ipotesi ha il pregio di assicurare della sanità mentale dei futuri docenti, ma purtroppo apre a un problema di natura filosofico/giudiziaria : se infatti fine ultimo dell’ente certificatore è attestare una competenza in modo fededegno ma questo non avviene, siamo davvero in presenza di un ente certificatore? O non piuttosto di un Non Ente? E che ne è stato dei controllori che dovrebbero vigilare? Intimiditi, drogati, soppressi? 


Il Ministro lo sa, che il Non Ente lo sta imbrogliando? Lo sa, qual è il prezzo di 5 punti al mercato dei titoli?


C’è, da ultimo, un problema piccolissimo, di cui si dà conto per completezza. Il cliente del Non Ente, grazie al suo acquisto ottiene la sede che vuole - o che gli spiace di meno - a spese di qualcun altro. In sostanza, gli frega il posto. E poi, va in classe a insegnare ai ragazzi l’educazione civica. 

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