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Liberatio scholarum

 Novembre 1995, subito dopo il ponte di Ognissanti. Il secolo scorso, prima dell’autonomia.

Prendo servizio nel Liceo psico-psico-pedagogico, con pochissima esperienza di scuola che non fosse quella che avevo frequentato io, in una piccola città e in un’epoca e in un contesto in cui la scuola superiore non era scontata.


Dopo due-tre giorni, è già sabato; durante la prima ora, bussano alla porta e si presentano alcune figure in maschera che invitano gli studenti a uscire. Mi spiegano che è la festa delle matricole e quella che è in atto, tecnicamente, si chiama “liberatio scholarum”. È un’azione che in questo momento sta avvenendo in tutte le scuole superiori della città facilmente raggiungibili da questi buontemponi di cui io, che vengo dalla provincia , non avevo nemmeno mai sentito parlare.


Nessuno mi aveva avvisata di questa cosa, non il preside, non la docente che mi era stata assegnata come tutor, non il bidello all’ingresso, non una circolare: io non so cosa fare, anche perché mi pare strano che centinaia di minorenni, a cui sempre chiediamo di produrre le firme dei genitori per autorizzare qualsiasi cosa (dall’assenza, alla gita, alla partecipazione alla conferenza di educazione sessuale), improvvisamente possano lasciare la scuola da soli, andando chissà dove. Mi pare strano ma nessuno mi dice niente perché nessuno sembra mai essersi chiesto nulla, Sì forse dovremmo farci dare dai genitori una “liberatoria”, che se succede che il figlio fa un incidente risulta che loro erano consapevoli che fosse fuori.


Nessuno sembra mai essersi chiesto nulla, come naturalmente accade a chi nasce entro un sistema, i cui riferimenti sono fuori discussione, perché sono il sistema. Ma io venivo da fuori sistema, dalla provincia, appunto, e quindi non trovavo naturale quello che stava accadendo e cercavo di capire cosa fosse.


Liberatio scholarum: liberazione di chi? da cosa? Non è l’istruzione un veicolo potentissimo di liberazione? Se imparo, capisco; se capisco, ragiono; se ragiono, trasformo. Non sono più costretta ad accettare la parola sacerdotale, che mi domina con la forza della formula magica. 

Pensiamo a Renzo Tramaglino, su cui si rovescia la grandinata del sapere di don Abbondio: Error, conditio, votum, cognatio, crimen; di fronte allo stupore del popolano, il curato conclude: Dunque, se non sapete le cose rimettetevi a chi le sa. E Renzo va in collera, perché non padroneggia lo strumento linguistico che gli consentirebbe di replicare a tono e gestire il conflitto in modo non violento.


Dunque, se proprio l’istruzione mi fa libera di acquisire conoscenze e metodi per l’indagine, con cui posso interrogare, confrontare, fare ipotesi, qual è l’interesse a togliere agli studenti questa fortuna?


Eh, Nadia, come la fai complicata. Liberatio scholarum, bisogna capire, mica si mette in questione l’importanza dell’istruzione. Però andare a scuola è faticoso; la liberatio è liberazione dalla fatica di andare a scuola, di seguire le lezioni, di prendere appunti, di imparare a memoria, eccetera eccetera. È solo una pausa, una piccola pausa dalla fatica del lavoro. 

Un’altra osservazione mi si faceva avanti: quanto costava questa pausa? Io ero nella scuola pubblica, quel giorno, come tutti i miei colleghi e così nelle altre scuole e da nessuna parte c’erano i ragazzi… quanto costava questa giornata di pausa alla collettività che finanzia le scuole attraverso il prelievo fiscale?


Nell’aprile dello scorso anno il Ministero ha comunicato che il costo medio per studente della secondaria di secondo grado ammonta a € 7.471,51. Un anno scolastico è fatto più o meno di un migliaio di ore; a spanne, alle cifre di oggi, quella pausa era qualcosa del tipo 7€x5hx20 studentix35 classi per N scuole… 7x5x20=24500. xN.  Sulla città faceva cento, duecentomila euro… Cento, duecentomila euro bruciati in un giorno nel sacrificio offerto alla Liberatio scholarum, nessuno che presiedeva a impedire questo spreco? 


Nessuno che protestava, che si lamentasse almeno un poco, che so, gli insegnanti impediti di svolgere il proprio lavoro, i genitori, a dire: “C’era la lezione di una materia in cui hai quattro e te ne sei andato via? Sei scemo?”. Se i genitori, invece che farle pagare a tutti i contribuenti, avessero dovuto versare di tasca loro 35€ per la liberazione del figlio, lo avrebbero fatto liberare o lo avrebbero tenuto incarcerato?


Qualcuno intanto mi ragguagliava storicamente, considerando la mia selvatichezza provinciale, parlandomi di tradizione, che mica solo a Padova, anche a Pavia, a Siena, ovunque c’è goliardia c’è questa usanza. E io guardavo con tanto d’occhi e chiedevo: Ma che usanza è, che valore ha, cosa c’è da difendere in un rituale che non prevede altro che riconoscere di avere un valore tra la mani e buttarlo a mare?


Nessuno ci pensava. Le mie rimostranze sembravano sproporzionate. “Che sarà mai un giorno di scuola in meno? si perdono tante ore, per un motivo o per l’altro, anche questo andrà nel mucchio”. Che sarà mai, un giorno di scuola? E chi può saperlo, se non c’è?


Dire: “Che sarà mai un giorno di scuola in meno” è l’indice di un’autodenigrazione che neanche ci si rende conto di provare. È come dire: “Quello che faccio vale talmente poco che anche se non lo faccio è uguale”, oppure “Quando sono in classe perdo talmente tanto tempo che basta che la prossima volta ne perda meno e mi metto in pari”. Io non potevo sentire queste cose senza pensare cosa arrivava agli studenti di questi adulti, che gli strizzavano d’occhio nel momento in cui li vedevano determinati a evitare la propria stessa lezione.


Assistevo con sgomento alla paralisi del corpo docente, presidi compresi, di un’intera città, rassegnati complici di un furto di tempo a spese di tutti, neanche capaci di immaginare una resistenza, un’opposizione, una messa in discussione, un momento di rilfessione in cui ci si chiede se va proprio bene così, o magari no. Se anche i Goliardi non debbano, a un certo punto, crescere e cominciare a agire con la responsabilità che tocca agli adulti.


A me, restava che potevo parlare seriamente di questa cosa solo con i miei studenti, al rinnovarsi, anno dopo anno, di questa cerimonia, e ragionare con loro; mettendo il bastone della riflessione tra le loro gambe, pronte naturalmente a correre verso il giorno in più di vacanza - pretendevo che capissero che unirsi alla festa non era gratis e loro erano liberi di non pagare quel prezzo e pretendere di avere le lezioni a cui avevano invece diritto. Chiedevo molto, perché ricevevano messaggi contraddittori, altri già gli avevano dato i compiti per la settimana successiva “Tanto voi sabato non ci siete”: 


Negli anni a seguire le relazioni diplomatiche con i goliardi si sono perfezionate attraverso l’istituto del preavviso formale scritto della Liberatio indirizzato al Preside e l’uso del preside di chiedere ai genitori dei minorenni l’autorizzazione scritta all’uscita del figlio da scuola in un orario non previsto, in occasione dell’evento. È stata cioè accolta la richiesta dei presidi di non rispondere di omessa vigilanza, potendo avvisare per tempo le famiglie e decidessero loro se il figlio poteva uscire da scuola o no. Si chiamerebbe “foglia di fico” se ci fosse qualcosa da nascondere, invece, purtroppo, è tutto chiaro. 

Commenti

  1. "A me, restava che potevo parlare seriamente di questa cosa solo con i miei studenti, al rinnovarsi, anno dopo anno, di questa cerimonia, e ragionare con loro; mettendo il bastone della riflessione tra le loro gambe, pronte naturalmente a correre verso il giorno in più di vacanza - pretendevo che capissero che unirsi alla festa non era gratis e loro erano liberi di non pagare quel prezzo e pretendere di avere le lezioni a cui avevano invece diritto. Chiedevo molto, perché ricevevano messaggi contraddittori"

    ...io c'ero! Grazie! ...lo raccontavo e ragionavo coi miei studenti esattamente di questo, poche ore prima lei pubblicasse questo post. Nella memoria lo rivedo esattamente in questi termini. Liberazione da cosa...ci siamo chiesti appunto...

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  2. Forse facevo parte di quella sua prima classe, e spero che negli anni successivi abbia portato il suo punto di vista sulla questione in modo differente. Perché le assicuro che come lo ha fatto a noi era tutto tranne che costruttivo. Quello che resta a me, per certo a noi, di quel giorno non è una messa in discussione critica (da adulta comprendo che forse la sua fosse anche paura di quei minori non autorizzati) ma il terrore provato se avessimo partecipato. Il sentirsi non libere di scegliere. Rimane il dispiacere per non aver preso parte a qualcosa che caratterizzava il mio ambiente. Perché, a volte, le cose giuste non sono necessariamente le migliori. Questo è essere persone libere e autentiche. Questo sarebbe stato bello ci avesse insegnato. Rimanere in classe un giorno in più non ci ha dato nulla, glielo assicuro. Se non il rammarico e la rabbia.

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