L’anziana signora avanzava faticosamente appoggiandosi a un deambulatore sullo sterrato dell’argine. Ah, no, non è un deambulatore, è una carrozzina, è una nonna che porta a passeggio il nipote lontano dal traffico, sballottandolo un po’.
No, non è una nonna, almeno non lo è in questo momento, è un’anziana signora che nella carrozzina porta un piccolo cane, riparato sotto una copertina. La sconosciuta mi addita un altro ingresso alla comprensione di quest'epoca fluida.
Nella mia infanzia e giovane età avevo chiara la ripartizione fondamentale tra le specie animali: una aveva prevalso sulle altre, ed era la nostra. Da tempi così lontani che la memoria non riesce a dominare, le aveva sottomesse con pratiche diverse, dall’estinzione all’allevamento.
Gli animali erano stati resi strumenti al servizio dell’uomo - per nutrirlo, coprirlo, rendergli più agevole il lavoro. Il più adattato di tutti, il cane, condivideva con le altre specie molte funzioni utili alla sopravvivenza e alla protezione: abbiamo cani - guida, da guardia, da caccia, da pastore, antidroga, da valanga; abbiamo creato anche il cane da compagnia, anima semplice,
inconsapevole di avere un padrone e di vivere al suo piacimento talvolta fin da prima della culla, reso incapace di procurarsi da sé il necessario alla vita e, se costretto alla sterilizzazione, pure di darla.
Mai, a me e ai miei fratelli, sarebbe stato concesso di baciare sulla bocca il cagnolino di casa, mai di farlo salire sul divano (men che meno sul letto), mai avrebbe avuto accesso alla tavola da pranzo. Se colpito da una malattia grave, i grandi spiegavano ai bambini che ogni buon padrone risparmia al suo servo la sofferenza che nessuna consolazione spirituale può lenire, ma solo è percepita nella sua estrema crudeltà sensibile.
Mai nessuno avrebbe indirizzato il cane da “papà” o “mamma”, indicando con queste parole se stesso o il proprio consorte, mentre il bestemmiatore prendeva a prestito la condizione dell’amico dell’uomo per forgiarne il peggiore insulto a Dio.
La signora anziana sull’argine mi mostrava che il bordo della separazione, che avevo appreso così netto, si doveva essere, negli anni, poco alla volta assottigliato, fino forse a scomparire del tutto.
Era, un tempo, del tutto normale che un cane che avesse aggredito un bambino, o il padrone stesso che pure gli dava da mangiare, fosse eliminato senza indugi: senza impossibili processi alle intenzioni (“I cani, non si sa mai cosa pensino realmente” diceva la nonna), non si trattava che di ricondurre il caso specifico all’impresa originaria, che aveva consegnato il dominio nelle mani dell’essere più intelligente, il cui potere doveva mantenersi incontrastato.
Se qualcuno poteva, anche allora, definirlo un “membro della famiglia”, era solo un modo per dire che il tormentato spirito umano riposa nel calore elementare di una carezza, nell’allegria dello spettacolo della vita nel suo invito scodinzolante, nella gratificazione di chi si mostrerà sempre riconoscente per un gesto di cura che riceve. Poi queste cose ti entrano dentro e l’altro vivente diventa un pezzo di te e ogni strappo fa male. Un male cane, appunto.
Avremmo guardato con dolorosa pietà chi avesse chiamato il cane “il mio bambino”, come coloro a cui la vita abbia tolto il senno lasciando, in cambio, il conforto di un’idea confusa.
“Non avremo figli, prenderemo un cane” dice sorridente la giovane donna all’agente immobiliare che ha ingenuamente indicato nella piccola stanza la possibile destinazione di “cameretta per i bambini”.
La coppia dell’epoca fluida disconosce o ignora la chiave profonda della natura che tutti ci supera - la generazione - e sostituisce al futuro l’eterno presente di un compagno di viaggio che invecchierà senza crescere mai.
Nessuno, se non in un sogno distopico, avrebbe mai immaginato che la sostituzione etnica potesse venire da una razza inferiore.
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